“Devo ringraziare che oggi c’è il sole”
Altro giorno di isolamento, altro giorno dentro casa. Gli uccellini mi augurano il buongiorno attraverso le loro sinfonie. Il vento scevro di indumenti si aggira tra le vie della città, sicuro di non incontrare nessuno che ostacoli la sua lascivia. Mi affaccio al balcone, trampolino del mio vascello catastale che semplifica il mio appuntamento con il mondo esterno, freddo e catartico. Sotto a dei blocchi con occhi di vetro, si estende una selva condominiale dove un coacervo di frutti dell’uomo e semi della natura coesistono con tacita deferenza.
E qui, in questa oasi silvestre, scruto una donna, seduta su uno scrigno di legno, mentre, con le gambe, si traveste da altalena per il suo bambino che deliquio si fa spettinare dalla brezza mattutina. E da lì, dall’altalena materna, sento queste parole “devo ringraziare che oggi c’è il sole”. Dalla mia umile poppa rifletto e interpreto questa frase che, in questo giorno immoto e monolitico, come setola di un pennello, sporca di colore queste languide ore. Quando ti vengono tolti, temporaneamente, i vezzi della quotidianità e per di più con ingiustizia palese, al punto che sfrutti questo tempo per espiare il fio dei tuoi peccati che hai sapientemente raccolto e nascosto nei meandri del tuo animo, allora dai importanza ai doni che, fino a qualche giorno fa, pretendevi con cipiglio menefreghismo, come la luce del sole, le tenzoni degli uccellini, il gusto di un caffè solitario accompagnato da un buon libro o da un cioccolatino coperto da arabesche scanalature per attirare la tua attenzione.
Quando sei circondato da poche distrazioni e trovi il tempo per te stesso o per osservare dal tuo oblò personale le onde della quotidianità, in quell’esatto momento ti accorgi della venustà della natura e ringrazi la sua prodigalità nell’appagare i tuoi sensi senza il coraggio di chiedere qualcosa indietro. Allora scopri che non ha senso tutto ciò che abbiamo fatto finora; corriamo verso non si sa dove, brancoliamo nel buio senza osservare il terreno sul quale poggiamo i piedi. Perché ci devono togliere la possibilità di camminare tra le vie infinite del mondo per capire quanto questo sia bello. Ci devono limitare la vista per capire quanto sono belli gli orizzonti. Ci devono fermare l’orologio per capire che sono le emozioni che scandiscono una giornata. E forse ci meritiamo la nebbia a cui volontariamente abbiamo concesso i nostri occhi. Magari, quando la burrasca si placherà e la nebbia si dissolverà con un poderoso afflato di vita, torneremo ad apprezzare i tramonti senza l’utilizzo dei cannocchiali.