Finalmente sono uscito. Dopo due mesi dall’inizio del lockdown, ho riassaporato il gusto fresco e primaverile di passeggiare tra le vie della mia città, che ora mi appaiono più belle che mai.
La prima sensazione che ho avuto quando la mia vista si è trovata di fronte quella pletora di vie, viuzze, palazzi e parchi che sempre mi hanno accompagnato tacitamente e servilmente durante i miei sbagli, le mie vittorie e le mie risa, è stata quella di trovarmi in un’altra città; una città che si presentava a me per la prima volta, esponendomi il suo volto di colori e profumi che mi hanno inondato i sensi. Dentro di me è emerso un sentimento di stupore e meraviglia – come ho fatto a non accorgermi di tutta questa bellezza, di questa via, di quella finestra, di quel negozio, di questa panchina ora rallegrata dal peso di una giovane coppia – come quando fai un viaggio in una città nuova e vieni accarezzato da un flebile tremore lungo la schiena che ti consegna quella sensazione tangibile che ti dice che sei emozionato.
E così è stato oggi, quando ho attraversato quelle vie, che sono sempre state “mie”, quei paesaggi che ho visto più volte, ognuno dei quali con sentimenti diversi, quelle case che mai sono state così colorate; e mi sono sentito ospite all’interno di quella quotidianità che per anni ha annoiato la mia vita. Ma la verità è che nulla è cambiato. Tutto è rimasto dov’era, aspettando diligentemente il ritorno delle vite che hanno riempito lo spazio e hanno ricamato su quei paesaggi avventure e desideri provenienti da aghi diversi; come un cane che legato ad un palo aspetta speranzoso e impaziente il ritorno del suo padrone.
Ed allora se tutto ciò che mi circonda è rimasto tale, perché mi appare come una sedicente novità? La risposta sta dentro di noi: non è ciò che osserviamo differente, siamo noi, o meglio è il nostro punto di vista che è cambiato. Il nostro vecchio Io è stato abituato a scorrere come un fiume in piena attraverso tutte queste immagini che incasellavano la nostra fuggevole vita come la cornice derelitta ed arrugginita di un quadro raffigurante una natura morta; siamo appassiti di fronte a ciò che la natura e la nostra città ci offrivano come panacea ai problemi quotidiani, abbiamo costruito intorno a noi una realtà che non ci apparteneva più: abbiamo coperto con un velo – simile a quello del filosofo Schopenhauer, dietro al quale si nasconde il noumeno, la cosa in sé – i nostri ricordi e la nostra infanzia, abbiamo offuscato e celato le cose superflue e pleonastiche che affaticavano i nostri già stanchi sensi, e abbiamo trattenuto nel nostro arido e tedioso mondo solamente quelle abitudini e quei gesti di cui ci lamentavamo a fine giornata o che rendevano le nostre vite insostenibili.
Ma alla fine, ciò che abbiamo realmente coperto è il nostro Io: siamo diventati ciechi pur continuando a vedere, siamo improvvisamente diventati i protagonisti del romanzo “Cecità” dello scrittore portoghese Josè Saramango, nel quale una malattia sconosciuta faceva perdere la vista, indistintamente dalla classe sociale e dall’etnia di appartenenza, a tutte le persone che la contraevano, tirando fuori da esse i loro istinti più turpi ed efferati per rivelare che la vera cecità da cui erano affetti era quella d’animo.
Con la sola differenza che noi, “grazie” a un virus che ci ha costretto a rinchiuderci a casa e a scoprire più da vicino noi stessi, abbiamo ricominciato finalmente a vedere. Nulla è cambiato – se con uno sforzo di acquiescenza accettiamo i nuovi comportamenti sociali –, o meglio: le abitudini e gli atteggiamenti che prima davamo per scontati, ombre invisibili che seguitavano il nostro incedere, ora assumono una livrea del colore della libertà. È cambiato il modo in cui diamo forma alla realtà – il nostro Io ora libero dalla corrente incessante della vita ha trovato uno scoglio di assoluta verità sul quale aggrapparsi -, perché quella è sempre stata tale nel suo esistere, ora però – simile al pongo con il quale giocavamo da bambini – cangia il suo modo d’essere ed è plasmata dal nuovo sguardo sulla vita, più leggero e serafico.
Adesso che riusciamo, forse per la prima volta, a poggiare il nostro sguardo sulle cose, e non ad evitarle avendo paura del loro ingombro all’interno della nostra cameretta personale che arrediamo di esperienze e sentimenti di anno in anno, ci accorgiamo di quanto è bella la natura, quanto sono belle le nostre città, quanto sono comode quelle panchine di legno che sempre abbiamo odiato; finalmente eliminiamo dalla realtà circostante quella maschera triste e bulimica che il nostro precedente Io le aveva indossato, e le regaliamo una nuova fatta di colori e speranza.
Forse, proprio ora che ci siamo dovuti fermare e abbiamo inopinatamente sperimentato il sentimento della solitudine, che ossimoricamente ci ha fatto compagnia negli ultimi due mesi, riusciamo a togliere il velo di Maya, riappropriandoci di quelle cose che avevamo scartato dalla nostra vita.
Attenzione però a coprire la realtà con una nuova maschera, perché anche se ci appare più bella e nuova rispetto a quella precedente, essa può facilmente coprirsi di ragnatele e perdere la venustà acquisita: d’altronde, non è importante la maschera che viene messa, ciò che più importa è quello che si cela dietro di essa.