“medici e infermieri della terra”

Ebbene sì, oggi abbiamo un malato ulteriore: la terra; ma non il pianeta terra che da qualche mese ha scoperto nuovamente cosa significa “respirare”, quanto è bello fare un lungo sospiro e riempirsi i polmoni di aria pulita e di uccellini, quanto è bello sentire sulla pelle delle nuvole i brividi del vento voluttuoso, che ora è più leggiadro più fresco e ribelle. La terra di cui parlo è quella dei nostri avi, delle nostre nostalgiche ed empatiche case di campagna, da dove nascono frutta e ortaggi, che emanano profumi di maturità e fatica, mentre si scrollano di dosso le tenere carezze del terriccio soffice e affabile. Ma dove c’è un parto, c’è un ostetrica che permette alla nascita di avvenire; e i nostri ostetrici silenziosi e solerti (e privi di diritti) – e abbronzati di un sole che controlla duramente il loro operato tutto il giorno – sono la pletora di agricoltori, la maggior parte immigrati irregolari, che si sono presi cura della nostra terra, amandola e rispettandola ogni giorno, più di quanto lo facciamo noi che in quella terra ci siamo nati. E perciò mi chiedo, è giusto che questi signori, questi ragazzi, questi lavoratori indefessi e taciturni che permettono alle nostre tavole di colorarsi di tanti splendidi colori – un arcobaleno dalla velleità di essere souvenir – e alle nostre cucine di prendersi una pausa dal rumore dei clacson e di viaggiare con l’olfatto verso quei campi laconici e copiosi, non si sentono legati, non si sentono figli adottati dalla stessa terra che ogni giorno riempie le loro giornate, le loro mani, i lor occhi, i loro pensieri sul futuro? Secondo me non è giusto e chi può deve fare qualcosa. Una proposta potrebbe essere la sanatoria tanto vituperata negli ultimi dieci anni e che permette, a chi vive nel nostro paese in maniera irregolare, di autodenunciare la propria condizione di cittadino ombra, che lascia tracce meno invisibili del suo status sui campi dove è costretto a lavorare in condizioni ignobili, e richiedere il permesso di soggiorno dietro una proposta di lavoro. E bisogna farlo presto perché questa proposta pervenuta in parlamento l’11 aprile è stata riesumata dagli abissi burocratici dell’anno 2017 e, ancora oggi, non ha preso vita; ma di vite ne potrebbe salvare molte. Regolarizzare i cittadini stranieri irregolari che lavorano nei campi e poi estendere questo diritto (che ormai ha assunto i connotati di un privilegio per pochi eletti) a tutti gli altri settori economici, potrebbe essere il primo grande passo per dare dignità a centinaia di migliaia di volti con una storia alle spalle e allo stesso tempo garantirebbe la sopravvivenza della filiera produttiva agricola, che senza questi lavoratori senza patria non potrebbe sussistere. Come dice Roberto Savianonon può esistere una società dove esistono cittadini più cittadini di altri”: il virus ci ha insegnato che di fronte alla malattia e al dolore siamo tutti uguali, non esistono differenze; perchè non possiamo avere lo stesso pensiero sulla schiavitù tacita ma surrettizia che ci fa compagnia da tanti anni e continuiamo volutamente ad evitare? Finché qualcosa di buono o cattivo non ci riguarda direttamente, non ci bussa alla porta e ci costringe a guardarlo di persona, non fa visita ai nostri amici e ai nostri cari, allora non ci importa. Siamo stati tutti bravi a darci sostegno e ad essere solidali dai balconi e a distanza l’uno dall’altro, perché non riusciamo a raccogliere questo spirito d’umanità verso quelle persone che, per anni, nelle nostre città, nei nostri paesi e nelle nostre vite sono entrate più volte a contatto con noi? A maggio riprenderemo la nostra quotidianità apportando qualche modifica comportamentale come il distanziamento precauzionale: non dobbiamo fare un grande sforzo per abituarvici, da anni ci hanno insegnato a mantenere le distanze sociali da tutte quelle persone che vivono nel nostro paese, ma senza che nessuno di noi lo sappia. Spero che possiamo tutti (Governo in primis) migliorare da questa crisi ed imparare che anche le radici più deboli e nascoste permettono all’albero di vivere e gli impediscono di cadere.
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